“Ascolta la voce del mio grido o mio re e mio Dio perché ti prego, Signore. Al mattino ascolta la mia voce fin dal mattino t’invoco e sto in attesa.”
Questa notte non ho chiuso occhio. Il picchiettio fastidioso e gelido e irregolare di un ramo sulla
mia finestra mi ha costretto ad uno strano stato di allerta, come quello di una sentinella che se ne sta
lì ad aspettare qualcosa che forse non arriverà mai. Ho spinto l’occhio sinistro all’estremità
massima quasi a voler intimorire il mio improbabile nemico.
Era tutto teso in avanti. Le fronde nodose ma agili allungavano i loro tentacoli di bronzo in una
supplica, elemosinando un riparo dalla pioggia e dal vento. Ho cercato di ignorarlo gettando lo
sguardo più avanti, là verso lo stagno della salina per poi salire lungo la stradina che costeggia la
chiesa in mattoni e quel vecchio edificio grigio. Ho corso lungo il pendio che porta alla scuola con
nelle orecchie l’eco dei consigli di mio padre “Guido il mento, cazzo! Il mento in alto!” mentre il
sangue mi pompava così forte nel cervello che ogni volta pensavo che non avrei mai raggiunto
quella fottutissima scuola, ma che, perlomeno sarei caduto lì, su quei ciottoli lisi dalla pioggia e da
troppe corse, tra gli elogi orgogliosi di mio padre. Ero veloce, mi sentivo leggero e per niente
stanco, ma era tutto inutile. Ogni tentativo di fuga era sventato, raggiunto come lo sprint di un
vecchio esausto corridore. Le mani enormi e scure e gocciolanti del nemico mi si paravano davanti
svelte e furbe e disperate, avvicinandosi, accerchiandomi, avvolgendomi inesorabilmente.
E’ un’idea comune a molti pensare che il desiderio di qualcosa che non si può ottenere sia da
ritenersi controproducente. Sognare la libertà in una cella di due metri per tre è per un ergastolano
una gioia avvelenata: gli ricorda che cosa significhi passeggiare a quell’ora in cui il sole è già
tramontato ma tutto è ancora luce e colori; svegliarsi la domenica mattina a fianco di una donna che
aspetta solo che tu apra gli occhi per poterti avere di nuovo; o sedersi di fianco a tuo padre
imitandone i gesti e le parole da adulto, solo per avere uno sguardo di approvazione. Non è
ragionevole fare così. Fa male abbandonarsi a certi pensieri. Un istante dopo, infatti, rimane solo
buio e freddo e tutto si fa più pesante da sopportare. Ho letto spesso di prigionieri che sono finiti
con l’impazzire per l’abitudine a lasciarsi andare a certe fantasie: giorno dopo giorno, infatti,
rinnovano la delusione, il dolore, la rabbia e maturano la consapevolezza di ciò che non torneranno
Questa mattina ho provato la stessa angoscia, credo.
L’ansia di correre via mi ha assalito ancora prima di aprire gli occhi e un dolce tepore di casa mi ha
inebriato i sensi come non mi succedeva da tempo. E’ stato il torpore mattutino che ha mascherato
l’insensatezza dei miei ragionamenti, facendomi abbassare la soglia di attenzione verso tali
emozioni e rendendomi inerte di fronte a quello slancio del cuore e del corpo che mi pungeva gli
occhi. Ho cercato di calmare il grido che sentivo dentro, di ridurlo alla ragione, ma non ci sono
Quando alla fine ho aperto il mio occhio sinistro, forse l’unico che vedrà ancora qualcosa, mi sono
sentito affogare dal dolore improvvisamente ammassatosi sul cuore come un macigno di fango e
erba secca. Il petto si gonfiava tanto che credevo si sarebbe aperto in uno squarcio lungo e
dolorosissimo, ma solo un secondo più tardi mi sono reso conto che il male più grande stava proprio
nel fatto che non si sarebbe mai aperto. Si sarebbe continuato a gonfiare fino all’impossibile, fino a
ostruire ogni vena o via respiratoria come in un collasso momentaneo, fino a riempire d’aria la
miriade di tubicini di plastica opaca che mi scompaiono nelle mani, nelle braccia, nel naso,
Una volta sola, ma lunghissima. Presto mi sono accorto che non era poi così difficile. Mi sono anzi
ricordato di aver già vissuto diverse volte al risveglio questa tortura e di nuovo, forse come allora,
mi sono maledetto. Ho maledetto la facilità con cui ogni notte mi lascio avvolgere dagli stessi
desideri di libertà e benessere per poi scoprire al mattino che sono solo una coperta troppo corta. Ho
maledetto quella parete che mi si para davanti spietata e sempre uguale, piena di macchie di muffa e
di mosche lasciate a morire, quella tenda ingiallita e troppo lunga su cui le cimici si arrampicano
lente e monotone, quasi a sottolineare il monopolio che hanno instaurato là dentro, regine di un
Come ogni mattina tra poco entrerà Rebecca.
Stretta in quel suo orribile vestito attillato che evidenzia le imperfezioni di un corpo goffo e
indeciso, si avvicinerà, anticipata da un atono “Buongiorno, come si sente oggi?” per scivolare
rapida fino alla finestra alla mia sinistra. “E’ proprio una bella giornata” dirà senza convinzione,
aprendo la vecchia persiana amaranto con quelle sue dita troppo secche e fragili per poter suscitare
qualche interesse, mentre la stanza, vuota e silenziosa, inizierà a depurarsi dell’aria pesante della
Di lì a poco, infatti, un rumore attutito e distante si fa più forte fino ad essere perfettamente
riconoscibile: due spessi zoccoli in legno si sfidano in uno sprint nel piccolo e rimbombante
corridoio per poi giungere e fermarsi insieme, puntuali, proprio davanti a quella stanza che
Questa mattina ho sentito uno strano sollievo nell’ingoiare le due palline colorate delle 7 e mezzo.
Il desiderio di libertà che mi agitavasi era già tramutato in un senso di piacevole stordimento.
L’angoscia che avevo provato al risveglio assumeva i contorni sfuocati di una normale delusione,
mentre le lacrime cadevano lievi ed attese. Ogni singhiozzo era un abbraccio che mi cullava, che mi
stringeva teneramente quasi a consolare la mia stupida illusione mattutina.
“Ormai non manca molto. Tra poco verrà a prendermi e mi porterà via di qui. Giusto il tempo di
Ho sentito appena il ruvido dorso di una mano che mi asciugava le lacrime prima di addormentarmi
“Guarda, rispondimi, Signore mio Dio conserva la luce ai miei occhi perché non mi sorprenda il sonno della morte perché il mio nemico non dica “L’ho vinto!” e non esultino i miei avversari quando vacillo.”
La sclerosi a placche è una malattia frequente nell’adulto giovane. “Le lesioni consistono in focolai
di demielinizzazione a carico della sostanza bianca del sistema nervoso centrale: la loro dispersione
disordinata spiega l’estremo polimorfismo clinico e segna una progressione discontinua della
malattia” mi disse un medico dopo il primo attacco che mi colpì alle gambe. È come se avessi qua e
là dei cavi scoperti, come se per qualche strana ragione il Centro Manutenzione del mio corpo si
fosse dimenticato di sostituire la guaina che ricopre alcuni nervi, provocandomi così degli
improvvisi cortocircuito che lasciano isolati membra o zone del corpo. Il problema, si capisce, è
quando i cavi scoperti sono più di quelli sani. Insomma è come se uno sciopero silenzioso e
capillare avesse mandato in tilt il mio sistema nervoso volutamente. I primi tempi, passato l’attacco
e il dolore iniziale, non mi sembrava poi di stare così male: vomito e vertigini erano gli unici fastidi
che avvertivo. Ma “La malattia segue un’evoluzione discontinua, con delle battute d’arresto in
alcuni focolai, mentre altri al contempo possono degenerare rapidamente”. Grazie, credo di aver
capito adesso. Mentre credo di star meglio, nuove manifestazioni sovversive, proteste sindacali e
scioperi inattesi si agitano dentro di me. Davvero buffo, se penso che non ho mai lavorato in vita
Sono ancora calmo. Disteso nel mio letto in alluminio mi osservo. Non è facile vedersi quando si è
costretti a stare immobili, quando aghi, tubi e fili ti tengono inchiodato ad un materasso gommoso e
flaccido, come un Gulliver che più si dimena più soffre, solo e in trappola.
Certe volte, non avvertendo più delle parti del corpo, ne perdo la coscienza e arrivo a credere che
potrei aver subito una qualche mutilazione. Una gamba. Un piede. Magari entrambi. Tutto sommato
non sarebbe poi un gran problema: adesso comunque non potrei utilizzarli. Molte mattine mi capita
di svegliarmi e non sentire niente. Di osservarmi e non riconoscermi. Non riesco a capire se il mio
corpo prosegue anche dopo il torace, in una zona ormai invisibile e silenziosa, una parte anch’essa
fatta di carne, ossa e sangue. A volte passo mattine intere immaginando che cosa farei in una
E’ incredibile quanto possa essere lucida la mente anche se a sfiorarla sono pensieri orribili.
Immagino di aver perso irreparabilmente le gambe. Mutilato, storpio, in carrozzella calcolo gli
effetti e le conseguenze della mia drammatica nuova vita. Parto sempre dalla supposizione
peggiore: “E’ molto grave. C’è addirittura la possibilità che non sopravviva”, mi dicono i medici
costernati. “Allora morirò”, rispondo guardandoli negli occhi. Scocciato più che triste.
Ma la mente umana è una creatura assai difficile da imbrigliare. All’improvviso un flash di un
vecchio articolo di giornale mi si presenta davanti “ Miracolo all’ospedale! Un uomo riacquista
l’uso delle gambe!”. Non ricordo di aver letto una cosa simile, eppure mi convinco che può essere
accaduto. Penso che anzi non deve essere poi una cosa così insolita recuperare una parte del corpo
che, assopita, si risveglia di colpo. E in un minuto, sono già pronto a giurare che cose simili
succedono in tutto il mondo, magari anche più volte l’anno.
E così, sono il nuovo miracolato. Dio, o chi per lui, si è messo una mano sulla coscienza e ha deciso
di togliermi dall’inferno di sofferenze e umiliazioni della mia vita da paralitico. Ed ora sono di
nuovo in pista, col petto gonfio e orgoglioso come se un ragazzo più grande mi avesse scelto per
primo nella squadra di calcio della parrocchia.
Ma io non ho affatto perso una parte del corpo. Mi è stato prescritto riposo assoluto e una leggera
seduta di riabilitazione motoria al giorno. Tra poco me ne andrò di qui, abbandonando le cure di
salicilato e ioduro di sodio e affidandomi completamente alle nuove sperimentazioni provenienti
dall’estero. Purinethol, Imuran, Cloraminifene diventeranno i miei nuovi Dei del focolare, nomi
tanto insignificanti quanto pieni di speranza.
Sono passati giorni, settimane, forse addirittura mesi, da quando mi sono svegliato in questa stanza.
Il pesco nel giardino alla mia sinistra si è affollato di tanti germogli che con il sole si sono aperti in
una miriade di perle bianche e rosa. Ho sentito il soffio della primavera entrare dolce e soffice dalla
finestra aperta a metà e l’aria pesante d’Agosto impregnarmi le ossa di sale e noia. Ho visto
Rebecca passarsi il fazzoletto di raso sulla fronte e il collo sudati per poi scendere lenta e precisa tra
i seni, e coprirsi le spalle ai primi soffi di vento e gironzolarmi intorno, quasi invisibile nei maglioni
di sua madre, maledicendo i costruttori dell’edificio, il tempo, l’inquinamento, lo scioglimento delle
Ormai non dovrebbe mancare molto. Non so da quanto tempo mi trovo qui ma non dovrebbe
mancare molto. Mi ha scritto che era solo questione di risolvere alcuni problemi burocratici per il
mio affidamento e riempire un po’ di scartoffie per archiviare il tutto. Questione di un altro paio di
giorni insomma, e poi sarebbe scesa con il piccolo. Forse un viaggio così lungo non è proprio
indicato ad un neonato di 4 mesi. Ma senza dubbio sarebbe scesa lei, di persona. Suo padre sarebbe
rimasto a casa per occuparsi del bambino e della casa e magari finire di sistemare la mia stanza.
Sarebbe venuta in treno. Da Milano a Marsala. E da lì poi avrebbe preso un autobus da Piazza del
Popolo, o magari Rebecca sarebbe potuta andare a prenderla in macchina, se non fosse arrivata di
mercoledì, giusto per non costringerla a tornare nel suo giorno libero.
Più di una volta ho immaginato questo momento. Mi capita spesso dopo le 4 del pomeriggio,
quando Rebecca e Domenico mi prendono di peso per spostarmi dal letto umido della stanza alla
Il sole è molto forte. Mi costringe a tenere gli occhi chiusi per alcuni minuti. Il mio occhio sinistro è
coraggioso ad aprirsi quasi immediatamente, l’altro ormai non risponde. Dei puntini grigi, come di
polvere, oscillano di fronte agli occhi e mi impediscono di vedere bene. In quell’istante una brezza
mi porta da dietro un profumo che conosco, misto all’odore del sale e del pesce. Sei dietro di me. Te
ne stai là, scomoda in quel tuo maglione di lana troppo lungo, con l’elegante imbarazzo di chi sa di
nascondere un tesoro ma ne sente il peso. Le mani affilate e fredde non osano uscire dai risvolti di
kashmir e si ritraggono come due testuggini nel proprio guscio, lasciandomi a fremere nell’attesa di
un nuovo incontro. Hai pianto quando sono riuscito a prenderle. Continuavi a piangere quando ne
sfioravo i contorni con le labbra e con i denti. Come fossi una bambina ti ho asciugato gli occhi
ancora gonfi e carichi di lacrime, sentendo i baci farsi più ragionati, come a non volersi più staccare
da quella pelle, come a percorrere ed esplorare ogni centimetro di un viso visto e sognato mille
Più di una volta ho immaginato questo momento. Ormai non dovrebbe mancare molto. Giusto il
Il vento soffia sulle barche dei pescatori che si preparano ad uscire. Il sole non è più così forte.
A pochi metri, come ogni giorno, dalla spiaggia di fronte l’Efebo di Mozia mi strizza l’occhio,
mentre mi addormento sulla sdraio azzurra.
“I suoi occhi sono aperti sul mondo, le sue pupille scrutano ogni uomo. Il signore scruta empi e giusti, egli odia chi ama la violenza. Farà piovere sugli empi brace, fuoco e zolfo vento bruciante toccherà loro in sorte.”
All’inizio è come un crampo. Una contrazione improvvisa ma non così dolorosa del bacino, che pur
restando fermo, sembra svegliarsi dal letargo per togliersi da quella scomoda posizione. Pochi
secondi dopo si trasforma in una fitta profonda. Arriva all’improvviso, con un minimo movimento
del corpo, spesso della nuca, oppure quando provo a stirarmi dimenticando la mia condizione di
malato. Inarco la schiena. Sollevo le spalle. E allora mi colpisce.
È la lama affilata del carnefice che affonda, lenta e precisa, per misurare un’immaginaria scala di
sofferenza. Un coltello, che lacera ma non recide, mosso dalla chirurgica intenzione di provocare
E dolore era esattamente quello che sentivo. Un dolore così diffuso da rendere praticamente
impossibile capire quale fosse la parte del corpo che si stava lamentando. Rebecca dice sempre che
il dolore è la manifestazione concreta delle nostre paure. Lo deve aver letto in una di quelle riviste
dalla copertina giallognola che affollano il comò in legno accanto alla porta. “E’ così, caro, non c’è
dubbio” diceva sempre con quella sua voce registrata. Ma quali cazzo di paure può avere una
persona costretta da mesi in un letto? Di volare? Di prendere un brutto voto ad un esame? Di non
rendere con un donna? Tutte cose tanto plausibili quanto fottutamente irrealizzabili. Nessuna cazzo
E’ buffo, quasi divertente, vedere l’impegno che certi specialisti impiegano nell’insegnare a
controllarlo. “Immagini di essere altrove, in un posto lontano e rilassante” recita la voce atona e
meccanica. Cascate, ruscelli, selve fresche ed esotiche, frutti succosi, brezze rilassanti, teneri
animaletti, dal pelo così folto e soffice che ti viene voglia di accarezzarli, dagli occhi
compassionevoli, dai denti splendenti e appuntiti che mordono la carne fino a lacerarla come piccoli
chiodi aguzzi, lasciandomi da solo, nuovo stupido San Francesco, a maledire un dolore che non
esiste, frutto della mia immaginazione del cazzo.
E allora affanculo le terapie di gruppo, le tecniche buddiste di rilassamento, le raccomandazioni
inutili dei dottori intervistati dai giornalisti, i consigli spassionati e saccenti di ex-malati ora
miracolati, o le dimostrazioni d’affetto di chi nella vita ha provato un dolore terribile quando lo
punse “quella gigantesca zanzara cinese”.
Non riesco a stare calmo. Le fitte di dolore che ogni mattina si presentano puntuali come autobus
inglesi e la coscienza di non poter far altro che aspettare, mi mandano fuori di testa.
Alle 7:30 Rebecca entra senza scrupoli nel mio dormiveglia di sudore schiaffeggiandomi con due
buongiorno che sanno di anice e limone; il primo marrone, il secondo azzurro. Così addormentato
come sono non ho neppure il tempo per dire una parola che già mi trovo in bocca le due pillole.
“Ma chi mi assicura che siano davvero medicine?” chiesi un giorno a Rebecca. La risposta apatica e
annoiata confutò all’istante la macchinazione che avevo immaginato. In fin dei conti, chi mai può
desiderare che rimanga a vita qua dentro?
“ Già l’ombra della notte si dilegua Un’alba nuova sorge all’orizzonte, con il cuore e la mente salutiamo il Dio di gloria.”
Alle 8:30, la seconda dose subito prima di colazione non è poi un gran peso. La tazza di latte e il
caffè mi aspettano come premio per la mia buona condotta. Ingoiare le due pillole diventa quasi un
piacere al pensiero di inzuppare lentamente i biscotti - 8 ogni mattina - mentre Rebecca mi racconta
dei suoi incontri galanti della sera prima. Poi, dopo aver pulito inutilmente la finestra alla mia
sinistra, si siede vicino al letto per leggermi qualcosa. Io sorrido mentre, come un bambino, non
posso fare a meno di versarmi addosso qualche goccia di latte. “Che cosa è di maggior gradimento
per il signore questa mattina?” scandisce in tono canzonatorio, conoscendo già la scelta. Mi costa
un po’ risponderle. Le parole non escono come mi aspetterei, si frantumano e inciampano nel
percorso dalle corde vocali alle labbra. L’afasia è piuttosto comune in una malattia neurologica
come la mia. Arriva spesso dopo uno dei tanti attacchi che sembrerebbero non aver lasciato segni
visibili, fino a che, una mattina, sorridi all’infermiera ma il tuo “buongiorno” ti muore in gola.
La delusione di non riuscire a cacciare quei suoni intrappolati si rinnova ogni mattina.
Rebecca non aspetta la mia risposta e apre il manuale di storia antica là dove si era fermata il giorno
prima. Mi legge ancora dell’isola, delle sue origini, della strada nascosta sotto il mare, dell’agave e
della salicornia, dell’emozione dell’archeologo Falsone di fronte ad una scoperta sensazionale, della
statua di un giovane efebo nascosta sottoterra dal suo creatore. La voce di Rebecca non sembra
mostrare il minimo interesse e prosegue veloce e distratta, mentre io mi perdo nell’immaginarmi
sull’isola, come un antico esploratore.
Il medico dice che questi sono soltanto i sintomi di una evoluzione che sta avvenendo dentro il mio
corpo; in sostanza la perdita della parola potrebbe anche costituire un gradino verso un altro
momento della malattia, dove magari potrei addirittura tornare a parlare. Oggi sono muto ma
domani potrei non esserlo. È difficile stare calmi ed affidarsi alla speranza, alle preghiere o alle
raccomandazioni dei familiari: sono solo, pressochè immobile e ogni giorno mi sveglio con
l’angoscia di poter vedere concretizzato uno degli incubi che mi tengono sveglio.
Questa sera, dopo cena, sono rimasto ad osservare le mie braccia: la sensazione di trovarmi di fronte
a qualcosa di estraneo mi ha sorpreso. Le vedevo, come ogni giorno, ma non riuscivo a sentirle.
Erano come due lastre che qualcuno aveva lasciato inavvertitamente sul mio letto, in attesa magari
di tornare a riprendersele. O quantomeno io lo speravo. Non c’è la certezza di aver perso
irrimediabilmente un arto, eppure non ci sono garanzie sulla possibilità di tornare ad usarlo come
Mi sono quasi abituato a vedere ormai solo da un occhio, ma continuo a stupirmi di quei due tronchi
di carne irrigidita che mi penzolano dalle spalle. La prima volta pensai addirittura che non fossero
miei. Pensavo che qualche cosa, in un’inaspettata operazione notturna, era andato storto, ma i
medici erano comunque riusciti a recuperare due braccia da impiantarmi. Non erano le mie ma
“Che cosa importa se sono le tue o quelle di qualcun altro se non puoi usarle?”.
Giusta osservazione. Sorrido verso l’abitante di Mozia.
“Sono davvero un cretino. Come se non sapessi chi mi trovo di fronte”.
Dal torace ai muscoli addominali non sento più niente. Il lieve solletico dei primi giorni ha lasciato
spazio ad una totale indifferenza dei sensi. Domenico e Rebecca come ogni mattina si danno da fare
nella meticolosa pulizia del mio corpo. In due sollevano il fianco destro facendo attenzione a non
rimuovere aghi e tubi e danno il via alla loro occupazione quotidiana, mentre io li osservo
dall’esterno, come in una di quelle operazioni registrate in sala e poi trasmesse in televisione. Se mi
sforzo, in realtà, posso ancora sentire. Non sento lo stimolo diretto, l’acqua fredda che dalla spugna
scende sul corpo o le unghie ruvide di Rebecca, eppure, se mi sforzo, riesco a ricordarlo. Ricordo la
prima volta che, imbarazzato, chiedevo all’infermiera di lasciarmi provare da solo, mentre scoprivo
con rabbia che non sempre con la sola buona volontà si ottengono risultati. Ricordo i miei occhi
chiusi e il corpo inerme come a non voler prendere parte a quella violenza.
Ricordo quell’umiliante sensazione mentre Rebecca, con un sorriso di madre compassionevole, mi
diceva “stai tranquillo, non sai quante volte l’ho fatto!”, come se potesse importarmi qualcosa
sapere che già aveva insaponato schiere di testicoli di chissà quanti vecchi o infermi.
“Non avrei voluto sentire niente” pensavo.
“Chi l’avrebbe mai detto che un giorno avresti pagato per ricordare quei momenti?”
“No. Non fu un’umiliazione, fu un sacrificio, un atto d’amore.”
Mentre il maestrale mi porta le ultime parole dall’isola, penso al sacrificio e all’amore e mi
addormento confuso sulla sdraio azzurra.
CAPITOLO V “Non morirò, resterò in vita e annunzierò le opere del Signore. Il Signore mi ha provato duramente, ma non mi ha consegnato alla morte.”
Il francobollo ruvido e rialzato mi si infila sotto l’unghia. Scorro avidamente il contorno della busta.
Premo con il palmo della mano, sfioro i due lati lentamente, attento a non perdere nessun dettaglio,
e mi fermo sull’indirizzo. Una penna mossa con decisione, una mano che conosco bene. Il solco
lasciato dalla penna a sfera è deciso, piuttosto profondo e non stento a riconoscerlo. Solo la
mancanza di puntualità nella consegna mi lascia perplesso e, non ancora convinto del tutto,
giustifico il ritardo dando la colpa alle Poste Italiane, nemico senza volto dei soliloqui di Rebecca.
La mano destra non smette di tastare e stringere e stropicciare la busta, mentre Domenico mi chiede
di lasciargliela aprire. Lo fa come sempre, con la gentilezza di chi chiede un favore. Ma i favori qui
li fanno solo a me. Solleva le mie dita rigide e lo guardo mentre si fa scuro in volto.
Non è una bella giornata. Il mare è un grosso campo di cartapesta verde marcio. Gli alberi delle
barche oscillano di fronte alla mia finestra. Una volta a destra, una volta a sinistra, si affacciano in
Domenico ha un buffo modo di leggere. Gonfia il petto con solennità, come se dalla sua
declamazione dipendesse il destino di un popolo. Sbatte le palpebre con forza, lascia scivolare le
sopracciglia l’una verso l’altra e gonfia leggermente le guance, in attesa che l’abitudine sconfigga
La voce di Domenico è solo uno dei mille rumori del mezzogiorno.
Le gocce di pioggia che scivolano sul vetro alla mia sinistra sono dita lunghe ed umide che mi
distraggono dal messaggio della lettera. Il vento si è fatto più forte e sbatte la persiana
schiaffeggiando di sabbia il vetro che Rebecca ha appena pulito. Rido immaginandomela a casa, nel
suo giorno di riposo, mentre non può fare a meno di preoccuparsi per tutte le attività inutili a cui si è
dedicata la mattina prima: i vetri e le persiane da pulire, i 3 gradini che scendono sulla terrazza in
tufo da lucidare, le piante da innaffiare. Non sorrido per malignità. Lo faccio solo perché so che
domattina, quando con la solita puntualità mi darà le due pillole delle 7 e 30, non smetterà per un
solo istante di lamentarsi, aggrottando le ciglia, muovendo le braccia come mulini a vento,
strusciando gli zoccoli in legno, aprendo e sbattendo forte la bocca in un concerto di improperi e
deduzioni meravigliose a cui assisterò senza pagare.
Ci sono ancora le zanzare. I primi acquazzoni di Settembre non sembrano averle scoraggiate.
Rebecca dice che è colpa del sindaco Maroccolo perché ha risparmiato sulle ditte di disinfestazione
perché “anche in una zona secca non bisogna sottovalutare il problema”. Si infervora spesso sul
tema. Da piccola Charlie, un pastore tedesco che le regalò il padre, morì di filariosi. Fa pena quando
maschera il dolore per il vecchio cane con l’improvviso desiderio da crocerossina di risolvere i
problemi della comunità, ma la capisco.
Il cielo è livido e la pioggia scroscia pesante sul tetto di lamiera della casetta producendo un rumore
che mi ricorda i lunghi applausi nei teatri. Sorrido di nuovo immaginando che persino la brutta
stagione rende omaggio all’impegno con cui Domenico sta declamando la sua parte. In piedi, con la
faccia ancora tesa, accoglie distratto il tributo della pioggia. Il camice bianco aperto sul petto
svolazza e gli dà una strana aria da attore.
C’è una nuova macchia di muffa che fa capolino dalla tenda. Ha la forma di un’isola: uno scoglio
giallo e verde a sinistra, una striscia più lunga e marcata a destra, dove i colori si mescolano in varie
tonalità. Vorrei poterla indicare a Domenico ma il torace e gli avambracci non sono più i miei.
I primi giorni da malato mi ero proposto di studiare attentamente la patologia, i sintomi e tutto ciò
“L’idea è quella di conoscere il male per riuscire ad affrontarlo”, mi dicevano i medici.
È forse per questo che stamattina ho riconosciuto senza il minimo stupore i nuovi sintomi della mia
malattia. La sensazione è quella di avere la pelle cartonata, dura come la pietra. Al risveglio ho
iniziato a scorrerla con l’indice destro. Una patina gelida mi ricopriva l’addome. Sapevo che sotto
quello strato il mio corpo c’era ancora, vivo e pulsante, eppure un’armatura mi rendeva impossibile
toccarlo. La trasformazione aveva avuto inizio.
Prima gli arti inferiori. Poi la mancanza di riflessi nella zona dell’addome. Il gelo era poi salito
lungo la schiena bloccando anche l’intero torace. L’avevo studiato, non avevo paura, eppure non
riuscivo a capire. Come si può osservare un corpo che si ha da quasi trent’anni e non riconoscerlo?
Stavo assistendo alla creazione di una statua. Stavo osservando la fase in cui si riempie il calco col
materiale liquido. Solo che la struttura per il calco era il mio corpo. Pian piano, era solo questione di
tempo, quella sostanza appiccicosa avrebbe colmato i vuoti rimasti.
“ Devi capirlo. È un sacrificio, un atto d’amore. È inevitabile.”. La finestra è aperta e il vento
Domenico non interrompe la lettura, poi con due lunghi passi è alla finestra, la socchiude e mi
guarda. I suoi occhi sono pieni di rabbia e pena mentre ripone le lettera nel comò della piccola
credenza in legno e marmo, assieme alle altre.
“Non manca molto ormai. Si tratta solo di avere un altro po’ di pazienza. Giusto il tempo di
riempire le ultime scartoffie. Poi finalmente verrà a prendermi e mi porterà via di qui. In fondo chi
“Perché tu non sei mai stato vivo.”
“E allora? Non posso desiderare che tu rimanga?”
Domenico mi copre con la copertina traforata che sta ai piedi del letto. Un attimo prima di riuscire
ad addormentarmi mi chiedo come sarebbe rimanere qui per sempre.
“Risanami, Signore: ho peccato contro di te. Risanami, Signore: ho peccato contro di te. Io ho detto: mio Dio fammi la grazia, Signore ho peccato contro di te.”
D’improvviso dei passi mi svegliano. È buio. Il suono non mi è familiare: conosco molto bene lo
sfregare degli zoccoli di Rebecca. Non sono i suoi. Stringo gli occhi per mettere a fuoco la stanza e
tendo il collo in direzione del rumore. Poi distinguo l’acqua. I piedi non sono più vicino ai gradini
ma in riva al mare, accanto al capanno delle sdraio, e si muovono pesanti senza curarsi del luogo e
dell’ora. Il rumore sordo di un tuffo mi fa gridare. Poi più niente. Rimango ad ascoltare per un paio
di minuti, senza percepire la presenza di nessuno e alla fine mi decido. Intravedo le gambe e i piedi
nell’oscurità della stanza. Non ho bisogno di supplicarle perché scendano dal letto e si appoggino
sulle mattonelle in attesa di una risposta da parte dell’altro emisfero del corpo. Il torace si flette. Le
braccia lo accompagnano in questo suo inaspettato percorso. Eccitato sento delle scosse elettriche
che mi percorrono il midollo, costringendomi ad alzarmi. Mi appoggio alla finestra. Non mi era mai
sembrata così bassa. Mi accorgo subito che non ne ho bisogno e lascio la presa dirigendomi verso la
porta. Sorrido quando le dita del piede destro si scontrano con il comò e fanno cadere il mio libro di
preghiere. È un dolore dallo strano sapore e non nego la gioia nel chinarmi a massaggiarmi il piede.
Raccolgo la vestaglia che Domenico ha appeso dietro la porta ed esco.
Due lune mi si parano davanti sui gradini di tufo della casa. Due cieli neri mi sfidano ad uscire.
Scendo fino all’acqua. Nessun turista amante dei bagni notturni, nessuna coppia in fuga d’amore,
nessun uccello insonne. Nessuno. Il mare non ha nessuna increspatura e mi guarda tranquillo, come
se nulla potesse rompere la sua quiete. L’acqua mi arriva inaspettata ai piedi e mi fa saltare
all’indietro. Ho paura. A riva, sotto di me, delle orme ben marcate appaiono e scompaiono sotto le
onde. Alzo di scatto la testa e mi guardo intorno. Di nuovo nessuno.
Non ho il coraggio di guardare l’efebo di Mozia che mi osserva sull’altra sponda.
Rimango impietrito ad aspettare che dica qualcosa, ma non parla. Ricordo allora le nostre
conversazioni, i pomeriggi passati ad ascoltare Rebecca che mi leggeva di una statua nascosta
sottoterra dal suo creatore perché non finisse nelle mani di avidi compatrioti. Penso all’attesa, alla
solitudine, alla speranza di tornare a vivere e alla frustrazione per non poter continuare a farlo.
“Perché non hai aspettato che ti venissero a prendere?” urlo verso di lui.
“Non ha importanza. Il suo è stato un sacrificio, un atto d’amore.”
“Credi che abbandonarti sia stato un sacrificio?”
“Ha rinunciato a me con dolore e mi ha sotterrato perché fossi libero.”
“Il mio Creatore mi ha abbandonato. Mi ha punito lasciandomi da solo.”
“Hai soltanto dovuto aspettare molto.”
Un tenue rosa si spande alle spalle mentre i due cieli si dividono e si colorano. Tutto è ancora
immobile mentre mi immergo senza fretta nell’acqua gelida. Cammino lungo la strada che il mare
ha nascosto sotto di sé e mi fermo solo quando la testa è a pelo d’acqua.
“Non manca più molto, vero?” chiedo tra i brividi.
“Giusto il tempo di risolvere le ultime…”
Le albe di Settembre a Mozia arrivano silenziose. Il cielo si infuoca all’improvviso e la natura
freme in attesa del primo sole che punge e fa male agli occhi. Non fa caldo e l’odore del sale risale
lento dalle pietre di tufo abbandonate davanti alla casa.
Un uomo e una donna sono in piedi di fronte ad alcune sdraio azzurre. La donna si stringe in uno
scialle di seta e inavvertitamente lascia cadere una pallina marrone ed una azzurra quando l’altro
l’accarezza sulla schiena. L’uomo dall’aria seria gonfia il petto, sbatte le palpebre con forza e lascia
scivolare le sopracciglia l’una verso l’altra.
“Alla sera sopraggiunge il pianto e al mattino, ecco la gioia.” recita da un libro di preghiere che
Quando una lunga macchina nera, tappezzata di fiori, parcheggia rumorosamente alle loro spalle e il
conducente va verso di loro, i due stanno ancora fissando la sponda assolata dell’isola.
“Scusate il ritardo, vi ho fatto aspettare molto? Sono venuto a prenderlo.”
Roger Wu, M.D. Staff Psychiatrist, CCDCAssistant Clinical Professor, UCSFFirst noted to reduce disruptive behavior in 1937Short-term use to treat ADHD symptoms is the single largest body of literature on any childhood psychiatric syndromeOf the 161 RCT’s, 65-75% of all patients Steady increase in diagnosis and stimulant (methylphenidate, dextroamphetamine) last 3-5 hours after ora
De volgende richtlijnen zijn belangrijk tijdens het herstel na een gastric bypass (maagverkleining): Gedurende 4 weken is het afgeraden zware lasten te heffen. Onder zware lasten verstaat men lasten > 5kg. Normale dagdagelijkse activiteiten zoals wandelen en trappen doen zijn wel toegelaten en worden zelfs aangeraden!! Fietsen en intensief sporten zijn niet toegelaten de eerste 4 wek