Personale e lavoro ottobre 2013

ANDREA CASTIELLO D’ANTONIOPsicologo del Lavoro e Consulente di Management. Psicologo Clinico e Psicoterapeuta. Professore Straordinario t.d. Università Europea di Roma LUCIANA D’AMBROSIO MARRISociologa, è consulente per attività di selezione, formazione manageriale e di sviluppo per aziende, pubbliche amministrazioni e scuole di management. É docente in master universitari sulle pari opportunità e autrice di numerose pubblicazioni sulla gestione delle risorse umane e sul diversity management.
Il coaching psicologico:
conoscerlo per utilizzarlo

Nuova attività, il coaching, con annessa nuova figura profes-sionale, il coach, e nuova figura di utente-cliente, il coachee. Lo scenario di azione è il mondo del lavoro o la sfera privata, a seconda di necessità, desideri e protagonisti coinvolti.
Il coaching prende le mosse dalle correnti psicologiche statu-nitensi che hanno ridato vita e dignità all’essere umano a metà del Novecento: soprattutto il movimento della Psicologia Uma-nistica e gli psicologi che sono stati raggruppati nella Third For- ce - la Terza Forza delle teorie psicologiche, tra la psicoanalisi ed il comportamentismo -. Questa è la derivazione scientifica e metodologica del coaching che nasce, appunto, dalle attività di counseling rivolto alla persona, ai gruppi ed alle organizzazioni. Infatti, negli anni Quaranta, alcuni importanti consulenti statu-nitensi iniziarono a svolgere un genere di consulenza personal-manageriale alle persone collocate ai vertici delle organizzazio-ni: per tale motivo alcuni sostengono che l’attuale “coaching” altro non sia che la veste contemporanea del developmental counseling (Tobias, 1996), mentre altri preferiscono marcare la differenza tra il counseling organizzativo ed il coaching, dan-do maggiore “evidenza” al primo (ad esempio, Biggio, 2007). In anni assai più recenti, Edgar Henry Schein ha offerto spunti di grande interesse in direzione della costruzione delle “relazioni di aiuto” e della consulenza al cliente (Schein, 1999, 2009).
Una derivazione del coaching spesso molto citata è invece quel- PERSONALE E LAVORO N. 549 - OTTOBRE 2013
la che deriva dall’ambito sportivo dove il coach, l’allenatore, ri-spetto alla squadra o al singolo atleta, ha l’evidente funzione di sostenere, rinforzare e sviluppare il potenziale delle persone verso il traguardo di gruppo e/o soggettivo. Tale idea sull’origine sportiva è basata sul lavoro di Tim Gallwey (1974), allenatore di tennis, il quale si rese conto che “il vero nemico” del tennista che allenava non era l’avversario ma lui stesso. Ci sono atleti che senza doping battono record per certi versi inspiegabili per i medici, perché riescono a lavorare non solo sul fisico, ma sulla convinzione che si può e che si tratta di mettere in moto risorse che il soggetto sprigiona se, invece di concentrarsi sulla tecnica della performance, si concentra sul processo per il raggiungi-mento di un risultato. Ciò accade se si visualizzano le possibilità, per cui poi le azioni intraprese e i risultati raggiunti non sono frutto esclusivamente di preparazione fisica ed atletica - né le-gati al caso - ma sono frutto di “allenamento personale” rivolto a conoscere e a saper valorizzare il proprio potenziale.
É dunque importante notare che l’attuale forma di consulen-za personal-organizzativa che chiamiamo coaching prende le mosse dagli studi in ambito psicologico (clinico e sociale, pri-ma ancora che organizzativo) e che esponenti di primo livello - ognuno dei quali con teorie e metodi comunque focalizzati sulla centralità della persona (come ad esempio Carl Rogers) - hanno sviluppato un approccio di gestione alla relazione nel rapporto con il cliente basato su relazione di fiducia, sperimen-tazione, feedback, consapevolezza, esortazione e empower-ment (Castiello d’Antonio, 2007).
Nella vita lavorativa, così come nella dimensione privata, le emo-zioni giocano un grosso ruolo per la determinazione di situazioni positive e situazioni negative che producono disagio piuttosto che benessere alla persona e ai suoi interlocutori. E, concreta-mente, nella vita organizzativa si tratta spesso di riuscire a su-perare momenti difficili, nella gestione del ruolo professionale di responsabilità complessa, piuttosto che di prese di decisioni ad alto rischio o impatto, o di sostenere momenti di difficoltà a fronte di imprevisti e pesanti tracolli o cambiamenti di vita che assumono la configurazione di sconfitta, perdita, o lutto – come nei casi-limite delle riorganizzazioni aziendali in cui le persone si sentono vividamente in situazione di pericolo (Stein, 2001).
Ecco allora il coaching, una metodologia che si basa su una mi-scela di motivazione, responsabilità, feedback, apprendimento, consapevolezza, impegno, possibilitazione, e sulla messa in moto di un processo tra coach e coachee basato sulla fiducia per conse-guire - attraverso obiettivi parziali lungo un percorso step by step, allenamento mentale e psicologico-emotivo mirato - quei cam-biamenti che la persona ritiene importanti per il miglioramento del proprio vivere la propria vita, sia all’interno della organizza-zione se parliamo di coaching aziendale, sia più in generale, se PERSONALE E LAVORO N. 549 - OTTOBRE 2013
pensiamo alla sfera privata, o se pensiamo - come è realmente - al benessere integrato della persona nella sua totalità.
Il congresso di Roma
É in questa chiave che il III Congresso Internazionale di Coa-ching Psicologico - svoltosi a Roma il 16 e 17 maggio 2013 - è sta- Il III° Congresso ta una importante occasione di confronto tra studiosi ed esperti su temi trasversali, per sviluppare - come recitava il titolo - “La trama e l’ordito” del tessuto della professionalità del coach e del tessuto dei processi di coaching, composti dallo sviluppo di com-petenze (la trama) e dalla crescita personale (l’ordito), per una professione che fa del “Sé come strumento” un punto cardine.
Il congresso è il terzo dalla nascita della International Society for Coaching Psychology ed il primo organizzato dalla Society for Coaching Psychology - Italy –: esso fa parte di quella atti-vità di sviluppo e promozione di un processo finalizzato al po-tenziamento del benessere e della performance sia nella vita personale che professionale attraverso il coaching psicologico, un indirizzo particolare nel variegato mondo del “coaching” che, com’è noto, è caratterizzato da una grande varietà di spe-cificazioni (executive coaching, piuttosto che business, perso-nal, skill, leadership coaching, per citarne solo alcune).
Tra gli speakers invitati si sono avvicendati sul palco espo-nenti di rilievo internazionale del coaching psicologico come Stephen Palmer, Tatiana Bachkirova, Sarah Corrie, Arnon Levy, Reinhard Stelter. Il congresso è stato aperto dalla presi-dentessa della SCP – Italy Silvana Dini ed è stato organizzato in sedute plenarie nelle due mattine e in gruppi di lavoro pa-ralleli nei pomeriggi.
Nel complesso, i relatori hanno fatto il punto sullo stato attuale della professione, sui bisogni che sono alla base delle richieste di coaching da parte delle aziende o dei singoli clienti, ma so- prattutto di come in un mondo sempre più complesso, incerto e turbolento, lo smarrirsi dell’essere umano è diffuso: pertanto un aspetto centrale per meglio vivere è imparare a “surfare sull’on-da del caos” (uno dei tre temi intorno ai quali si è sviluppata la riflessione congressuale), ovvero almeno dotarsi di una tavola, dato che puoi cadere da un momento all’altro e non sai cosa farà l’onda. E il coach aiuta a surfare sull’onda del caos.
Basandoci sul fatto che il modo di creare problemi è diverso dal modo con il quale risolverli, è evidente la necessità di cambiare prospettiva. Secondo Einstein, in questa ottica l’autorganizza-zione assume un ruolo centrale tra le capacità umane per soste-nere l’ansia e trovare creativamente soluzioni che permettano di costruire delle nuove forme di rassicurazione, perché per af-frontare le emergenze c’è bisogno di flessibilità: si devono attra-versare le ansie piuttosto che pensare che si possono soltanto evitare. Da questo punto di vista le organizzazioni hanno il mito PERSONALE E LAVORO N. 549 - OTTOBRE 2013
di se stesse, perché pensano di poter essere sempre al top, ma così facendo bruciano i propri manager perché non si può esse-re sempre al massimo, soprattutto in una realtà difficile com’è quella attuale: una squadra non si allena e non gioca per essere sempre al massimo, ma si allena e gioca per arrivare a raggiun-gere un picco che poi non mantiene stabilmente. Se si opera in uno scenario caotico, non si può adottare una logica o un meto-do lineare, perché non funziona: oltretutto è attraverso il caos che si possono identificare alternative prima non pensabili.
Nelle organizzazioni che si muovono in tali caratteristiche di contesto, cambia anche il ruolo del capo, che deve passare dal controllo al presidio, che deve dare esempio, accompagnare e dare visone e significato a contesti e azioni, facilitando la visione della responsabilità di ognuno. Il coaching può offrire supporto ai team manager e alla diffusione della cultura di valorizzazione delle differenze, attraverso la costruzione di politiche di Diver-sity Management, per favorire la trasformazione organizzativa e incoraggiare le persone a visualizzare le proprie risorse per intraprendere nuove strade. Nel Diversity Management, infat-ti, è centrale “il concetto di inclusione. Esso va oltre quello di integrazione e sottolinea l’orientamento verso un comprendere in una totalità, in altre parole un utilizzo pieno delle differenze, non appiattite quindi da un’integrazione che può in taluni casi produrre ‘annacquamento’ di alcuni tratti che segnano le di-versità, ma valorizzazione quasi enfatica di quei tratti che sono il segno distintivo delle identità e, quindi, delle potenzialità, in quanto queste, come tali, sono anche sia frutto e sia sintomo ed espressione delle diversità stesse”(d’Ambrosio Marri, 2008). Infatti, nei processi di cambiamento le resistenze delle persone, anche le più competenti sul piano tecnico-specialistico, possono portare le persone a bloccarsi e diventare cieche e sorde per la gestione di un dialogo interiore che, invece, con il coaching psicologico si può riavviare costruttivamente: di più, si può mi-gliorare ed elevare a strumento di sviluppo del sé.
Veniamo, dunque, a illustrare sinteticamente alcuni dei con- tributi più significativi emersi nel corso delle due giornate del Congresso di Roma.
Stephen Palmer e Sarah Corrie (Gran Bretagna), hanno in-trodotto i lavori proponendo uno sguardo internazionale sul-la disciplina e un aggancio all’orientamento evidence-based - Palmer è co-autore di uno dei testi principali del coaching psicologico attualmente disponibili: Palmer, Whybrow (2008) -. In Danimarca, secondo Ote Michael Spaten, è sempre maggio-re la richiesta - crescente anche tra gli impiegati - di coaching psicologico, perché l’esperienza di molti manager come coach interni ha dato i suoi positivi frutti e le persone sono più con-sapevoli delle proprie aree di potenzialità che vogliono svi-luppare. Certo, il rischio è evitare le mode: su questo Richard PERSONALE E LAVORO N. 549 - OTTOBRE 2013
Stelter (anche lui proveniente dalla Danimarca) ha offerto un punto di vista sociologico e psicologico sulla rilevanza che nel-la attuale società assume la formazione della nostra identità e la nostra “cornice valoriale”. Nel senso che abbiamo sempre più bisogno degli altri per scoprire chi siamo e quindi diventa sempre più diffuso il bisogno del dialogo collaborativo. É at-traverso questo che, in aggiunta, la diffusione della conoscenza e delle competenze, di cui il mondo del lavoro ha fortemente bisogno, può svilupparsi in apprendimento diffuso e in fattore di innovazione. Questo processo può essere incentivato da fi-gure di leader all’interno delle organizzazioni che sviluppano la capacità di gestire la complessità, non più quella “lineare” di raggiungere un semplice obiettivo. Siamo così alla cosiddetta Terza generazione del Coaching (il secondo sotto-tema cen- trale del Congresso), quella per cui la relazione tra coach e coachee è centrata anche sulla riflessione, sulla creazione di uno spazio aperto in cui cercare significati, approcci, risorse personali e soluzioni nell’ottica della evidence-based, cioè del-la “pratica che da valore alla pratica”, come tratto distintivo della identità professionale del coach (v. Stelter, 2013).
L’approccio evidence-based alla professione di coach ha rap-presentato il terzo e conclusivo motivo di fondo del Congresso di Roma. Sicuramente può essere talvolta difficile definire, il risultato “quantitativo” di un percorso di coaching, ma anche definire cosa sia l’evidenza, soprattutto nel linguaggio e nelle aspettative “aziendalesi” della questione del “ritorno visibi-le” dell’investimento sul breve periodo. Questo perché nella complessità salta il rapporto lineare causa-effetto, si scatena l’effetto farfalla, quel fenomeno per cui un battito d’ali in Cina può scatenare un uragano negli USA… Ricercare l’evidenza, quindi, necessita cambiare prospettiva di valutazione. Si tratta, allora di cambiare paradigma nel gestire le organizzazioni, nel gestire le persone e nel guidarle. Il coaching psicologico può essere uno degli strumenti che aiuta le persone a riconoscere in modo consapevole la propria vulnerabilità e a non averne paura, anche perché nel caos c’è sempre un’emergenza!Le persone imparano finché vivono, le organizzazioni vivono finché imparano! Bella ed efficace, è un’espressione utilizzata da Alberto F. De Toni (Italia) nella sua relazione sul “navi-gare nella complessità”. Realtà aziendali come Toyota, Erics-son, Bulgari, Unicredit, si preoccupano di adottare sia forme di coaching interno attraverso una formazione mirata ai capi di linea o ai manager di riferimento di funzione, sia forme di coaching esterno, a supporto del team management e per ac-compagnare i processi di cambiamento culturale e/o strategi-co delle organizzazioni. Questo perché nei processi di trasfor-mazione è cruciale decostruire e ricostruire il senso e quindi darsi una direzione e trasmetterla. In questa chiave ecco che PERSONALE E LAVORO N. 549 - OTTOBRE 2013
il rapporto tra sviluppo delle competenze e sviluppo della per-sona diventa una connessione bidimensionale che va curata in ottica integrata: dalla persona e dall’azienda che crede nella valorizzazione delle persone e che pone le risorse umane al centro strategico della crescita dell’impresa. Seguendo la stes-sa linea di pensiero, l’intervento di David Lane (Gran Breta-gna) ha preso in esame le necessità dei leader per far fronte ad un mondo organizzativo sempre più complesso.
Bisogna però stare attenti al rischio di ridurre il coaching psi-cologico - e la Psicologia Positiva, che ne costituisce una delle radici teoriche - ad una specie di “scienza della felicità”, come se, ad esempio, i dieci colloqui di coaching che scandiscono un ipotetico percorso fossero una sorta di pillole del benessere, una forma di prozac dai minori effetti collaterali e dai maggiori benefici, che non dà assuefazione ma procura autostima e senso della possibilità (possibilitazione). Su tale tematica, ha notato Andrea Castiello d’Antonio (Italia) nella sua relazione sui rap-porti tra coaching psicologico e psicologia positiva, non vanno dimenticate quelle fonti di disagio esistenziale del coachee che, se ignorate o banalizzate, possono portare il coach verso ap-procci salvifici superficiali, quanto pericolosi e deleteri: in tali situazioni, sia il coach con delirio di onnipotenza, sia il coachee che immagina di risolvere improvvisamente e a tutto tondo problematiche del profondo che meritano altri ambiti di cura e professione, possono essere portati facilmente fuori strada. É anche per questi motivi che quando si parla di “coaching psicologico” (e non di coaching tout court) è importante affi-darsi a professionisti ed esperti dell’essere umano e non a per-sone che, provenienti da altre discipline, si propongono come “esperti” nelle relazioni di aiuto. Se per ristrutturare un ponte o una casa chiamereste in primo luogo uno staff di architet-ti, geometri, ingegneri ed esperti sull’impatto ambientale, e poi, successivamente, forse, un esperto di cromature d’inter-ni, o di grafica murale, perché per una relazione di suppor-to al cambiamento e alla identificazione e valorizzazione del proprio potenziale interno alla persona dovreste chiamare un professionista che nasce e ha curato le proprie competenze in altri campi e - eventualmente solo recentemente uscito da un’azienda - si propone, dopo un corso di qualche mese, come esperto di coaching? Essere stato capo con una certa sensibi-lità umana alla guida di persone o avere il fascino per l’essere umano, possono essere tratti che definiscono l’umanità di un buon capo e la sua curiosità verso le persone, ma non sono di per sé tratti che definiscono la professionalità qualitativa di un coach. O comunque non quella di un coach psicologico.
A proposito della delicatezza di questa professione e del ruolo del coach, Tatiana Bachkirova (Gran Bretagna), alla luce del-la sua esperienza di ricerca sul team del coaching psicologico PERSONALE E LAVORO N. 549 - OTTOBRE 2013
e nel ruolo di supervisor di molti coach che operano nei più diversi campi (v. Bachkirova, 2011) evidenzia uno dei rischi cui può andare incontro il coach: quello dell’auto-inganno. La-vorare sull’autoinganno implica in primo luogo assumere la consapevolezza della caduta in esso, frutto spesso di paura del rifiuto del cliente, del guadagno quando il percorso di coach si procrastina, e del desiderio di salvare la propria immagine-reputazione. Si tratta di un terreno ancora più complicato, che non può essere trattato in questo articolo, ma credo sia utile citarlo per evidenziare un’altra ragione a favore dell’affidare servizi di coaching psicologico, soprattutto in ambito azienda-le, a professionisti che abbiano, oltre agli studi e alla sensibilità personale, un’esperienza umana e una capacità autocritica che ne fanno prima ancora che dei bravi professionisti, delle per-sone solide e altrettanto coscienti dei propri “limiti” e rischi.
Commenti conclusivi
Nel mondo dell’impresa, dunque, il coaching psicologico può dare un forte contributo alla vita organizzativa e al benessere delle persone, sia a livello di vertice sia a livelli intermedi di responsabilità. Il contributo può trarre beneficio da numerose “fonti”, come è stato ben evidenziato nel corso del Congres-so di Roma. Ad esempio, utilizzando l’approccio della Posi-tive Psychology (Seligman, 2007; Seligman, Csikszentmihalyi, 2000) che sposta l’attenzione sulle risorse delle persone, anzi-ché sul “difetto” - a parte i fenomeni di psicopatologia effet-tiva del soggetto - e che va oltre l’identificazione dei punti di forza “comportamentali”, ponendo l’accento sull’attrezzatura, come risorsa interiore rappresentata dal patrimonio della per-sona, che essa stessa può e decide di mettere in campo per una crescita migliorativa in senso ampio e duraturo, e non secondo una dimensione temporale tipo “usa e getta”. Ma molte altre indicazioni di grande rilievo stanno emergendo nell’ambito del coaching psicologico come gli indirizzi basati sulle teorie comportamentiste e cognitiviste, psicodinamiche e sistemiche, esistenzialiste, centrate-sulla-persona, indirizzate verso la so-luzione focalizzata, evidence-based e di genere motivazionale, narrativo e conversazionale. Una molteplicità di scuole, indi-rizzi e modelli da inquadrare nei contesti culturali di riferimen-to, come sottolineato da Diane Lennard (2010), ma da con-siderare sempre come strettamente legati al grande contesto delle attuali conoscenze psicologiche e sociopsicologiche (v., al proposito, la posizione di Looss, 1991). Il Congresso di Roma è stato un incontro utile e tempestivo, molto ben impostato, con un forte supporto organizzativo ed anche arricchito da nume-rosi materiali precongressuali. Ha sicuramente rappresentato un’occasione di confronto che non va sprecata o dispersa. Sarà forse necessario difendere la specificità del coaching “psicolo- PERSONALE E LAVORO N. 549 - OTTOBRE 2013
gico” rispetto ad altre forme meno scientificamente delineate di coaching, pur mantenendo le porte aperte al confronto ed al dibattito, in vista, forse, di una qualche forma di regolamenta-zione della professione di coach che, almeno nel nostro Paese, sarebbe molto utile per porre un limite a ciò che è stato defi-nito il “selvaggio west” del coaching (Sherman S., Freas, 2004).
Il coaching psicologico è ancora “giovane” (Grant, 2000), è una “nuova scienza in cerca della sua identità”, come recitava il titolo della relazione congressuale di Arnon Levy (Israele) ma, come ha fatto notare Castiello d’Antonio nella sua relazione (v. anche Ca-stiello d’Antonio, 2012, 2013), ha di fronte a sé un grande, potenzia-le, cammino durante il quale potranno essere utili la famosa espres-sione attribuita a Lao Tse, Un viaggio di mille miglia comincia con i tuoi piedi! e un pensiero del Dalai Lama: Le decisioni sono un modo per definire se stessi. Sono il modo per dare vita e significato ai sogni. Sono il modo per farci diventare ciò che vogliamo. Bibliografia
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Source: http://www.scpitaly.it/congresso/images/download/art_congresso_marri.pdf

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