Ciclo di Conferenze e Riflessioni su
Parrocchia Beata Vergine delle Grazie - Udine
Fine e inizio della Sapienza. Introduzione a Qoelet. del Prof. Mario Turello
L'idea di confrontarci col Libro di Qoelet è scaturita dagli incontri dello scorso anno sul Libro di Rut: piccolo libro apparentemente semplice ma ricchissimo di significati profondi relativi alla storia di Israele. Concludemmo il ciclo su Rut con la lezione di Luciano Caro, rabbino di Ferrara, e fu lui a suggerire, quasi una sfida, che quest'anno affrontassimo il Qoelet: e sottintendeva che sarebbe stata un'impresa ben più impegnativa. Comunque ci promise che lui stesso sarebbe tornato per parlarcene, e il 15 aprile chiuderemo anche questo nuovo ciclo con la sua lettura ebraica. Tra i relatori dello scorso anno ci fu anche il professor Borsato, la cui conferenza s'intitolava Il libro di Rut. Presenza laica di Dio. Vorrei citarne un passaggio che è pertinente con quanto diremo stasera. Il libro di Rut, osserva Borsato, si svolge tutto in un "ambiente profano… completamente demitizzato: è un libro che, insieme con altri (Giobbe, Sapienza, Qoelet, ecc), presenta il superamento e il passaggio da concezioni di fede a impronta sacrale (Dio interviene prodigiosamente dall'alto) a concezioni di fede a impronta laica (Dio agisce all'interno della storia e suscitando la responsabilità e la crescita dell'uomo)". Nel mese di ottobre siamo stati ospiti del rabbino Caro a Ferrara, in occasione della festa delle capanne, Sukkot, durante la quale la liturgia comprende la lettura del Libro di Qoelet. E qui vorrei fare un'osservazione: mentre a un cristiano, o meglio a un cattolico, anche osservante, può capitare di non ascoltare mai la lettura di Qoelet come "parola di Dio" (Qo 1,2; 2,21-23 viene letto nella XVIII domenica "per annum" dell'anno C - abbinato in chiave moralistica all'episodio del ricco stolto di Luca 12, 13-21 - e Qo 1, 2-11; 3, 1-11; 11, 9-12,8 rispettivamente nel giovedì, venerdì e sabato della XXV settimana "per annum" dell'anno B), il pio ebreo lo sente recitare per intero una volta all'anno. E a Trieste lo scorso anno in occasione della Giornata europea della cultura ebraica è stato eseguito Qoelet. Colui che prende la parola, l'oratorio drammatico per voci recitanti, orchestra e musica elettronica del maestro Marco Podda su testo di Rino Alessi, e in quell'occasione il rabbino Piperno ha detto qualcosa di importante, cui tra poco farò riferimento. Abbiamo avuto la fortuna di ospitare quello spettacolo nella nostra basilica il 5 di gennaio, ed è stata una sorta di introduzione a questi nostri incontri. Il 6 febbraio poi abbiamo ricordato il dodicesimo anniversario della morte di padre David Turoldo con una serata di recita di poesie da Mie notti con Qohelet, che è stata occasione anche di un primo approccio al messaggio di quello che noi cattolici chiamavamo l'Ecclesiaste, e i protestanti chiamano il Predicatore, e che ora preferiamo chiamare Qoelet, senza sapere precisamente cosa significa.
E da Turoldo vorrei partire per la mia introduzione a Qoelet; chiedo fin da ora la vostra comprensione: non sono un biblista, e le mie osservazioni sono del tutto soggettive (ma ho letto molti esegeti di Qoelet). Turoldo definisce Qoelet un "dissacratore", "forse l'unico, che sia fra tutti un vero ateo". E aggiunge che "è per merito suo che nella Bibbia - il "Grande Libro" nel cui richiamo concludo i miei canti - anche i più radicali negatori trovano una loro collocazione, una loro ospitale dimora: il vero Dio, l'Ineffabile, cioè il nostro Dio, li accoglierà". Dico subito che qui Turoldo se per un verso esagera (per Ravasi quella dell'ateismo è una prospettiva semplicemente improponibile nell'Antico Israele), al tempo stesso si corregge (l'oscillazione è, come si vede, tra inesistenza e ineffabilità di Dio). Ma prendiamo per buona la definizione di Qoelet come ateo, o quelle poco più tranquillizzanti di scettico, deluso, contestatore, cinico, pessimista che gli sono state applicate, per farci capire gli interrogativi di coloro che nei secoli si sono interrogati sulla presenza del suo libro "scandaloso" nel canone biblico, sia ebraico che cristiano. Se poi ricordiamo che Qoelet è stato anche letto come un filosofo dell'aurea mediocritas, del carpe diem, addirittura come cantore della gioia, un epicureo - nel senso corrente ma non corretto della parola, quello cioè di gaudente - già abbiamo i segnali di un testo che si offre a una pluralità di letture, molte delle quali (quelle positive) suonano come tentativi di addomesticamento, di rassicurante attenuazione della carica critica, ironica, disincantata (mi riferisco soprattutto al disincanto di Weber) del libro. E comunque letture così disparate sono la conseguenza della intrinseca, addirittura metodica contradditorietà del Qoelet, come vedremo. Dico subito che io propendo per le letture "pessimistiche" o "negative" del libro, sostenute dallo stesso Ravasi o, con forza estrema da Guido Ceronetti, che in Qoelet riscontra "la verità umana totale", ovvero "la verità della miseria perfetta e invincibile della vita, della sapienza, del tutto". E a proposito di canone, vorrei darvi (o richiamarvi) alcune notizie che saranno utili, spero, al nostro approccio a Qoelet. Scusatemi per il mio procedere ondivago. La Bibbia ebraica è detta anche Tanakh, che è l'acronimo formato dalle prime sillabe di Torah (dottrina, insegnamento, Legge), Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Il Tanakh è composto di 24 libri (dei 94 dettati da Dio a Esdra; ne restano 70, numero simbolico), che per noi sarebbero 39, ma il conteggio ebraico è diverso: i dodici profeti minori sono computati come un solo libro, e così i nostri Samuele 1 e 2, Re 1 e 2, Cronache 1e 2, Esdra e Neemia). L'ordine è diverso da quello della Bibbia cristiana, che segue una successione storica, o supposta tale. La definizione del canone, ovvero il riconoscimento ufficiale dei libri che sono "parola di Dio" (i libri "che sporcano le mani"!) avvenne in tempi diversi: prima, intorno al 400, fu accolta la "legge di Mosè", ovvero la Torah, che noi chiamiamo Pentateuco: la sola propriamente scritta da Dio stesso, e anzi antecedente alla creazione stessa. Poi i Profeti, il cui canone doveva essere ormai fissato intorno all'inizio del II secolo a.C. Per quanto riguarda gli Scritti, la determinazione dei libri canonici ebbe termine soltanto alla fine del primo secolo dopo Cristo, dopo la distruzione del secondo tempio. Fu la parte più discussa: secondo i rabbini, lo Spirito Santo s'era ritirato da Israele dopo la morte di Zaccaria, e i libri posteriori all'ultimo profeta non potevano avere dignità canonica. Troviamo tra i Ketuvim il Libro di Daniele solo perché lo si credeva scritto nel periodo dell'esilio babilonese, e il Cantico dei Cantici e il Qoelet solo perché attribuiti, come i Proverbi, a Salomone. Il Siracide e i Maccabei (che sono datati) furono invece respinti perché troppo tardi. Comunque non fu un'operazione pacifica; ad esempio i Sadducei non accettarono mai i Profeti e gli Scritti. Anche la storia del nostro canone è molto complessa: quello cattolico romano comprende 73 libri, 46 dell'Antico Testamento e 27 del Nuovo, e comprende sia il canone ebraico sia i libri cosiddetti deuterocanonici, che erano stati accolti dalla traduzione greca dei Settanta, ma che Girolamo nella Vulgata aveva tenuto distinti; il Concilio di Trento li accolse nel canone. La Bibbia protestante oggi ricalca il canone ebraico e mette i deuterocanonici in appendice; gli anglicani li escludono assolutamente, gli ortodossi non solo li accolgono, ma ammettono tre libri in più rispetto al canone cattolico. Si dice che la chiusura del canone ebraico sia avvenuta verso il 90 dopo Cristo ad opera di un'assemblea di rabbini a Jabneh (o Jamnia). Durante l'assedio di Gerusalemme del 70 d.C. rabbi Johanan ben Zakkai riuscì a evadere dalla città e ad avere un colloquio con il generale Vespasiano,
futuro imperatore, ottenendo il permesso di fondare una nuova scuola a Jabneh, sul costa del Mediterraneo (Tel Aviv), e ricostruirvi il Sinedrio, che divenne di fatto un'assemblea di dotti dall'autorità vincolante per tutti gli ebrei, sia della Giudea che della diaspora. Verso l'80 la guidava Gamaliele II, all'inizio del II secolo rabbi Aqibà. Studiosi come Rowlwy e Lewis mettono in discussione che ci sia stato un vero e proprio concilio di Jamnia, ma ammettono che le discussioni della scuola abbiamo contribuito alla fissazione del canone: "possiamo solo dire con certezza che alcuni libri, come Kohelet e il Cantico dei Cantici furono discussi nell'assemblea di Jabneh; che il dibattito continuò anche dopo questo tempo e che l'opinione circa l'estensione del canone venne cristallizzata nel periodo Tannaitico (secondo secolo); non si può dire nulla di più." Mi pare interessante che l'unica ammissione riguardi le discussioni - ai fini non dell'inclusione, ma del mantenimento o dell'esclusione - del Cantico dei Cantici e del Qoelet: i due libri più scandalosi, di cui Renan diceva che era come se nella "biblioteca di teologia" della Sacra Scrittura si fossero infiltrati un libretto erotico e un opuscolo di Voltaire (e l'accenno a Voltaire mi piace molto, con la sua allusione all'ironia e, in generale, al razionalismo illuministico). Nei "detti dei padri" (Pirqê Abôth) si legge che "Abba Saul diceva: all'inizio dicevano che i Proverbi, il Cantico dei Cantici e Qohelet non erano canonici, poi dissero che erano soltanto scritti sapienziali e che non appartenevano alle scritture. Li hanno innalzati e li hanno abbattuti finché non vennero gli uomini della Grande Sinagoga e li interpretarono". Dei due tradizionali avversari, Hillel era per la sacralità del Qohelet, Shammai era invece certo che "non sporcasse le mani". E' molto curioso che l'argomento portato a favore della canonicità del libro sia stato questo: esso inizia con dibrê (parole) e finisce con ra' (male), e tutte e due questi vocaboli si trovano anche nella Torah. Un'argomentazione stupefacente, che sembra quasi un'extrema ratio, quasi non si fosse ravvisato alcun altro motivo per accogliere il libro; ma certamente l'attribuzione salomonica fu determinante. Io però vorrei osservare che dibrê e ra sono la prima e l'ultima parola del libro solo se si considerano le aggiunte redazionali che, quella finale soprattutto, già operano la "normalizzazione" in senso ortodosso del libro, come dirò poi. In realtà il testo autenticamente qoeletico comincia e finisce con havel havalim, vanitas vanitatum, cornice e ritornello che impronta l'intera opera. E il tentativo di correggere, o di reinterpretare il Qoelet continuarono in ambito ebraico: il Targum, ovvero la versione-commento in aramaico, lo trasforma in un manuale di teologia farisaica introducendovi una visione escatologica che gli è del tutto estranea, e attenua le affermazioni di Qoelet formulandole al condizionale (si trova in Internet). E nel Talmud il trattato Shabbath (30b) contiene una disputa tra rabbini sull'interpretazione di passi del Qoelet, a partire dal riconoscimento della loro contraddittorietà, con sottigliezze davvero sofistiche, e moralizzanti. Nonostante (o grazie a?) tutto ciò, Qoelet entrò a far parte delle cinque meghillot, ovvero dei cinque rotoli (cinque come i libri della Torah!) utilizzati come letture liturgiche: Rut a Shavuot (settimane), il Cantico a Pessach, Lamentazioni al 9 di av, Ester a Purim e Qoelet, come abbiamo detto, a Sukkot. (come abbiamo visto, Qoelet, unico tra i libri della Bibbia, termina con ra, male: la lettura liturgica rimedia a tale sconvenienza rileggendo, dopo l'ultimo, il penultimo versetto). Ma perché? Chi interpreta Qoelet come una sorta di Inno alla gioia trova appropriato che lo si legga in occasione di una circostanza gioiosa come la festa delle Capanne. Cito un passo che sembra confermare questa interpretazione: 9, 7-9: "Va', mangia felice il tuo pane, bevi con cuore lieto il tuo vino perché questo è quanto Dio vuole che tu faccia. Bianca sia in ogni tempo la tua veste, il profumo mai manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami in tutti i giorni di questa vita vuota che ti sono concessi sotto il sole, in tutti questi giorni vuoti…". Ne potremmo trovare molti altri simili, ma anche altrettanti di segno inverso, che non solo riconducono la gioia stessa a vanità (dobbiamo ancora vedere cosa significhi), per non dire dei passi dove dice che è meglio la tristezza del riso, e il lutto meglio della gioia. Mi piace molto di più quanto ha detto Piperno nell'ultima celebrazione di Sukkot: ve ne fornisco il testo (vedi ultima pagina). Ma mi piace anche citare Paolo De Benedetti: "Il libro di Giobbe è fatto per stimolarci alle obiezioni, ma le nostre esigenze vanno al di là del libro di Giobbe e al di là delle esigenze di Giobbe. Allora c'è il Qohelet. A questa per me è una "prova", simile al giuramento del rabbino sul
rotolo della Torà. Se il canone biblico si facesse oggi, nessuna chiesa o sinagoga accetterebbe di mettere tra i libri sacri il Qohelet: solo lo Spirito Santo poteva spingere a includere il Qohelet nel canone biblico. E ora, quando leggiamo in chiesa il Qohelet, dobbiamo concludere "parola di Dio": Eppure ci sono nel Qohelet parole che dicono: "E' meglio il giorno della morte che il giorno della nascita"; "tutto è venuto dalla polvere e torna alla polvere". Allora, alla domanda: "Dov'è il tuo Dio?" che io pongo a me stesso rispondo: il mio Dio è nel tormento concettuale, nell'enigma, nel gusto di confonderci le certezze. Questo mi insegna il Qohelet." De Benedetti nello stesso articolo ricorda che in un poema liturgico per Sukkot, scritto da Eleazar Kallil nel IV secolo circa, c'è un versetto che suona così: "Io e lui salva, deh", che equivale a chiedere a Dio di salvare noi e Lui stesso. Bisognerebbe aver seguito la conferenza di De Benedetti a Passariano; ne ho fatto una sintesi in un mio articolo, che pure vi fornisco. Ma questa è un'altra pista. Volevo soltanto suggerire che, nel conflitto delle interpretazioni, c'è una via tutta ebraica: quella di non tentare di risolverle, ma di mantenerle come elemento di dinamica intellettuale. Mi piace ricordare che è uscito di recente un libro di Stefano Levi Della Torre, Zone di turbolenza, che è una raccolta di saggi sul pensiero duale, ovvero capace di mantenere le alternative, le ambiguità, i paradossi, gli ossimori, il confronto, per evitare le angustie e le rigidezze del pensiero unico che genera i dogmatismi, gli integralismi, i fanatismi. Levi Della Torre cita Salmi 62, 12: "Una parola egli ha detto, due ne ho udite" come una sorta di motto di questa forma di pensiero. Ma il Qoelet non è un libro difficile, è un libro difficile da accettare. O meglio, è difficile da accettare nel suo contesto (che ancora dobbiamo vedere): dovrebbe invece essere molto vicino al nostro sentire, moderno e postmoderno. E' di questo parere José VÍlchez LÍndez che scrive: "Qoelet è un precursore dello spirito moderno, e anche di quello postmoderno. L'esperienza, non in astratto ma nel concreto, sembra essere per lui la norma suprema. E poiché questa è contraddittoria, egli stesso potrà contraddirsi. Siamo lontani dalle apologie tradizionali, che cercano di presentare un Qoelet logicamente (io aggiungo: teologicamente) impeccabile, libero da qualsiasi contraddizione. Perciò possiamo ripetere, con E. Glasser, che "il libro di Qoelet è sempre attuale", anche per quanti non condividono la sua stessa fede: "Il nostro saggio suscita l'interesse di credenti e increduli""; e ancora De Benedetti (fatto proprio da Ravasi) sostiene che "è di grande importanza che Qohelet sia stato incluso nel canone biblico: ciò significa che una religiosità così laica, conflittuale, critica, negatrice di tutta la tradizione, è legittimata addirittura come "parola di Dio". Non dobbiamo vedere in questo qualcosa di contraddittorio, quanto piuttosto un'implicita ammonizione a coloro che si adagiano soddisfatti nel pensare religioso e che considerano il pensare laico un affronto fatto a Dio".
Sono quasi arrivato a delle conclusioni, e ancora non ho presentato il Qoelet. E' ora di dare qualche notizia sull'autore e sull'opera, sull'epoca di composizione, e di contestualizzarlo nel canone ebraico e poi in quello cristiano. Il titolo del libro sarebbe propriamente Parole di Qoelet, o del Qoelet, perché piuttosto che un nome il termine sembra indicare una funzione (si tratta in realtà di un participio femminile, ma con concordanze grammaticali maschili) Deriva da qahal, che l'indica l'assemblea: in greco ecclesìa, da cui Ecclesiaste nella Bibbia cattolica. Lutero preferì tradurre Prediger: predicatore. Le interpretazioni oscillano: Qoelet è colui che convoca l'assemblea, o colui che parla nell'assemblea, o colui che insegna, o semplicemente siede in assemblea (Ceronetti: "Qohelet, nelle assemblee, è piuttosto uno che sogghigna in silenzio delle scempiaggini che ode"); ma si è fatta pure l'ipotesi che sia colui che raccoglie (assembla) non persone, ma proverbi, massime sapienziali. Si presenta come "figlio di Davide, re a Gerusalemme", cioè come Salomone. E opera di Salomone il Qoelet fu ritenuto almeno sino al XVII secolo (1644, Ugo Grozio), ma fino al secolo scorso qualcuno si è sforzato di sostenere questa identità dell'autore. Ed è appunto per essere stato creduto opera di Salomone che il libro si è salvato dall'esclusione dal canone. Tra i Ketuvim, vengono attribuiti a Salomone i Proverbi, il Cantico dei Cantici e appunto Qoelet: se ne spiegano le diversità attribuendo il Cantico a Salomone giovane, i Proverbi all'uomo maturo e il Qoelet al vecchio disilluso (e a Ceronetti piace chiamarlo il Vecchio).
Non conosciamo dunque il nome dell'autore che si definisce Qoelet, e non è neppure sicuro che vivesse a Gerusalemme. Possiamo invece collocarne l'attività con una certa sicurezza intorno alla metà del III secolo a. C., in base a considerazioni linguistiche e culturali. Abbiamo un termine ad quem certissimo nel 150 a. C., poiché Qoelet è presente nella biblioteca di Qumran in rotoli datati intorno a quell'anno. La contraddittorietà del testo ha portato a supporre che esso sia dovuto a più redattori: si è arrivati a individuarne addirittura nove. Altri hanno proposto di leggere Qoelet come una disputa, in cui si alternano affermazioni e confutazioni. La maggior parte degli studiosi però riconosce l'unitarietà del testo, e le sue contraddizioni come espressione di uno spirito critico che va confutando i fondamenti della sapienza tradizionale; tutti però riconoscono che, se non due, almeno un editore del Qoelet ha aggiunto i primi due versi (intitolandolo Parole di Qoelet) e l'epilogo, forse in funzione canonizzante, correggendo intenzionalmente, forse fraintendendo; e alcune interpolazioni sono presenti nel testo. Anche la questione di una strutturazione del testo, che alcuni sostengono e altri negano, va secondo me superata nel senso di una metodica a-sistematicità, se così posso dire. Lascio da parte la questione degli influssi che l'autore del Qoelet può aver ricevuto dalla letteratura sapienziale egizia e mesopotamica (Il canto dell'arpista, L'epopea di Gilgamesh) o dalla letteratura (Esiofìdo, ad esempio) e dalla filosofia greca: sottolineo soltanto che Qoelet è l'espressione di quel periodo ellenistico che si caratterizza per una grande apertura culturale all'insegna della multiculturalità e del sincretismo, e che certamente Qoelet respira questo clima di crisi e di rinnovamento (fine e inizio!). In ogni caso, porre questi libri sotto il nome di Salomone equivaleva a una patente di sapienza: Salomone è il sapiente per antonomasia. Ma ad essere considerati sapienziali sono i Proverbi, Giobbe e Qoelet (e qui apro un'altra parentesi: abbiamo visto che il canone ebraico non ammette i libri "deuteronomici"; quello cristiano sì, e vi troviamo il Libro della sapienza di Salomone, - Sapienza - e il Libro della sapienza di Gesù figlio di Sira - Siracide, o Ecclesiastico - : vedremo che in essi continua la storia della sapienza ebraica, andando a saldarsi con quella cristiana). Dunque dobbiamo leggere il Qoelet nel contesto della letteratura sapienziale, che è un genere letterario molto diffuso, quasi universale: ovviamente a noi interessano quelle culture - la mesopotamica, l'egiziana, la greca - che possono aver influenzato gli autori dei tre testi, e il Qoelet in particolare. La letteratura sapienziale è un genere assai poco biblico (qualcuno ha definito Giobbe, cantico e Qoelet un "corpo estraneo" nella Bibbia) e per nulla deuteronomistico. In Geremia si parla di tre figure: sacerdoti, profeti e saggi. Si discute molto se quella di saggio fosse una funzione pubblica, e se esistessero vere e proprie scuole di sapienza. In ogni caso, era proprio dei saggi occuparsi delle cose pratiche, di fornire non tanto dei codici religiosi, quanto dei manuali di comportamento che ben potremmo dire laico; e in questo appartengono piuttosto a una tradizione universale che a quella nazionale ebraica. Due sono le idee di fondo del pensiero sapienziale: una è quella che esiste un ordine delle cose, e saggio è colui che, conoscendolo, agisce nel modo e nel tempo opportuno, la seconda è quella che potremmo chiamare teoria retributiva: il bene e il male, la felicità e la sventura sono conseguenza - premio o punizione - del comportamento umano: è ciò di cui sono convinti gli amici di Giobbe, che però sa di essere un giusto, e di non meritare le sue sciagure. Il libro dei Proverbi, più antico, rispecchia questa sapienza intrisa di ottimismo e di presunta giustizia, certamente divina, ma assai prossima a un automatismo di causa ed effetto: un buon comportamento garantisce il successo, il peccato si sconta con la disgrazia. Giobbe contesta, confuta questo principio, e mi piace ricordare che Miles, nella sua "biografia di Dio", osserva come la risposta a Giobbe sia l'ultima volta che Dio parla nel Tanakh: quasi sia stato messo a tacere dal suo interlocutore. Le cose vanno ancora oltre col Qoelet, il quale sulla base dell'evidenza e dell'esperienza, dopo aver scrutato ed esplorato ciò che sta sotto il sole, conclude che, se c'è un disegno, un ordine che regge questo mondo, all'uomo non è dato di conoscerlo; certamente non si verifica il principio retributivo: i giusti e gli ingiusti, i buoni e i malvagi ricevono indifferentemente il male e i pochi beni che la vita largisce, e per tutti il destino è il medesimo, la morte. Non c'è in Qoelet l'idea deuteronomistica di un realizzarsi del principio retributivo nella storia d'Israele, anzi
non c'è neppure un'idea di storia: il suo tempo è un tempo circolare, il tempo dell'eterno ritorno per cui "non c'è nulla di nuovo sotto il sole"; non c'è l'idea della successione generazionale come forma di continuità, e non c'è un orizzonte di sopravvivenza: la resurrezione dei morti, il giudizio, il premio e il castigo sono idee che si affacciano più tardi, con l'apocalittica e con il libro di Daniele, e se mai Qoelet ne ha già un sentore, dobbiamo concludere che polemizza con i protoapocalittici così come con i protofarisei e i protosadducei (e, secondo Ceronetti, con gli Esseni di Qumran: questo leggerlo in antitesi con tutti sta almeno a dimostrare la sua diversità da tutti). Qoelet crede solo a ciò che vede ed esperimenta, e ciò che vede ed esperimenta smentisce la sapienza tradizionale: non c'è ordine, non c'è remunerazione, tutto è contraddittorio, assurdo. E "assurdo" è la traduzione che preferisco del termine chiave havel, che Qoelet usa al superlativo: havel havalim (come santo dei santi, re dei re, cantico dei cantici: e Ravasi dice che Qoelet è l'anti-Cantico dei Cantici: quello, semmai, il poema della gioia). Havel significa vuoto, vento, fumo, indica insomma ciò che è inconsistente, impermanente, quasi nulla, o proprio nulla (nuje di nuje, traduce la Biblie friulana); è anche il nome di Abele, ci ricorda Erri De Luca, che preferisce tradurre "spreco di sprechi" (spreco fu anche il sacrificio di Abele) e che nota che Qoelet per "uomo" ricorre ad Adam, in un gioco di allusioni, non troppo chiaro però. Comunque sarebbe importante far sentire la forza di quel superlativo: infinito vuoto, propone Ceronetti in una delle sue versioni, vanità immensa, propone Sacchi. Io preferisco assurdo perché esprime il senso, a me pare, dell'intero libro. Non posso analizzarlo qui, e preferisco soffermarmi su un solo passo, famosissimo (non leggiamo Qoelet, ma lo citiamo assai più di altri testi biblici: nihil novi, vanitas vanitatum, c'è un tempo per ogni cosa…)
Qo 3, 1-15 Per ogni cosa c'è il suo momento, un tempo opportuno per ogni faccenda sotto il cielo. Tempo per generare, tempo per morire; tempo per piantare, tempo per sradicare il piantato; tempo per uccidere, tempo per guarire; tempo per demolire, tempo per costruire; tempo per piangere, tempo per ridere; tempo di far lutto, tempo di danzare; tempo per gettar pietre, tempo per raccoglierle; tempo per abbracciarsi, tempo per staccarsi dagli abbracci; tempo per cercare, tempo per perdere; tempo per conservare, tempo per buttare via; tempo per strappare, tempo per ricucire; tempo per tacere, tempo per parlare; tempo per amare, tempo per odiare; tempo di guerra, tempo di pace.Quale profitto, per chi agisce, in tutto il suo affaticarsi?Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini perché si affannino in essa: Egli ha posto nel loro cuore anche il mistero del tempo, (olam) senza però che essi riescano a comprendere l'opera che Dio ha compiuto da cima a fondo. So anche che non c'è altro bene per loro se non gioire e passarsela bene durante la loro vita. Ma in ogni uomo, che mangi o beva o si goda il benessere per tutta la sua fatica, anche questo è dono di Dio. So che tutto ciò che Dio fa, resta per sempre; non c'è niente da aggiungergli, niente da togliergli: Dio fa così perché lo si tema. Ciò che è stato, accade ancora oggi; e già esiste ciò che sarà: Dio ricerca il tempo fuggito.
Due volte sette: è la totalità, l'insieme dell'agire umano espresso in coppie oppositive: per la sapienza tradizionale, ordine: per Qoelet, assurdità, enigma, perché non è dato all'uomo conoscerlo, e il tempo circolare confonde tutte le cose, senza progresso, senza vantaggio. Ma ecco, straordinario, il concetto di olam: che si può tradurre mondo, o eternità: c'è nell'uomo un'idea, un'intuizione di un disegno, ed è questo il paragone dell'esperienza, che in rapporto ad esso si connota come assurda. Altri vorrebbero tradurre tenebra (la vocalizzazione si presta a questo; l'interpretazione delle parole chiave di Qoelet, ma di tutta la Scrittura, fa gioco nelle varie interpretazioni) ma allora tutto si rovescerebbe di significato: Dio stesso avrebbe ottenebrato l'uomo, impedendogli di vedere i propri disegni. In ogni caso Dio (Elohim per Qoelet: dicono i rabbini che Elohim definisce il volto severo di Dio, Jahveh quello benevolo) è fuori dal suo orizzonte: sia perché l'empirico, il pragmatico, il laico Qoelet si mantiene "sotto il sole", sia perché Dio è infinita incomprensibile trascendenza. Cosa resta all'uomo? Secondo la lettura ottimista, la gioia, il godere del poco bene che per caso o (per arbitrio?) ci viene largito. Le ultime parole di Qoelet sono ancora vanità di vanità; segue l'aggiunta edificante del redattore che dopo averci ricordato l'attività di Qoelet (che raccolse, o meglio - molto meglio - rettificò molti proverbi) ne riassume il messaggio in temi Dio, e osserva i suoi comandamenti. Il primo ammonimento è qoeletiano, il secondo no. Qoelet non raccomanda mai l'osservanza della Legge, anzi la ritiene vana! Invita invece al timor di Dio, che nel suo caso equivale al riconoscimento della infinita trascendenza e incomprensibilità di Dio: un Dio ben diverso sia dal garante di giustizia della sapienza tradizionale, sia dal Dio d'Israele. Il timore di Dio: nei Proverbi si legge che timor Domini initium sapientiae (Pr. 9-10). Ecco il perché del mio titolo, che gioca un po' sull'equivoco: il "timor di Dio" di Qoelet segna la fine della sapienza antica, e sprona a una sapienza nuova, che risolva le incongruenze, le contraddizioni, le assurdità che egli ha messo in luce, e di fatto la inaugura. Dice Sacchi che "il merito di Qoelet è quello di aver posto il giudaismo davanti ai suoi problemi e di averlo costretto a prenderne coscienza e a dargli una risposta". La risposta verrà dall'apocalittica, con l'idea di immortalità dell'anima (e della risurrezione) e con una riconfigurazione dell'idea di Sapienza nel Libro della Sapienza e nel Siracide, che di fatto riformulano il pensiero sapienziale reinnestandolo in quello deuteronomistico (Sapienza come ipostasi divina personificata, Sapienza identificata con la Torah) nella elaborazione talmudica (o, del tutto diversamente - e piuttosto qoeleticamente! - nel Manuale di Disciplina di Qumran, che vanifica al Legge in una visione rigidamente deterministica). Per noi la risposta è ovviamente il Cristo. La tradizione cristiana ha in qualche modo fatto proprio Qoelet, magari moralizzandolo: si legga per esempio il primo capitolo dell'Imitazione di Cristo, e si potrebbero fare molti altri esempi a dimostrazione del fatto che Qoelet è stato assunto come espressione del contemptus mundi che percorre un po' tutto l'ascetismo cristiano. Quando ancora credevo di dover intervenire alla fine, e non all'inizio di questo ciclo di incontri, pensavo di prendere in esame il moltiplicarsi di Qoelet in quelli che Ravasi chiama i "Mille Qoelet": i teologi, i filosofi, ma soprattutto gli scrittori e gli artisti nei quali risuona il messaggio disincantato di Qoelet. Mi sono invece ritrovato a dover in qualche modo introdurre il libro biblico. Ma voglio almeno riprendere da Ravasi l'osservazione, che egli mutua da Gadamer, che "la Bibbia e soprattutto testi come Qohelet si presentano quasi fossero opere aperte, works in progress, affidate alla tradizione dei credenti e di tutti coloro che cercano con cuore sincero" e invoca, accanto alla Formgeschichte e alla Redaktinsgeschichte, una Wirkungsgeschichte "che studi appunto la risonanza che il testo ha prodotto, l'ermeneutica che ha provocato", allargandone l'ambito alla
tradizione storico-artistica: una nuova esegesi della poesia, del romanzo, della pittura, della musica, del cinema ecc. Spero che il professor Giuliani e il professor Nunziata ci introducano proprio a questo: in ogni caso, leggete Ravasi. Termino con Sandro Mazzinghi, che nel suo libro Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet conclude: "il temere Dio proposto dal Qohelet è un atteggiamento che risponde a precise esigenze poste nel contesto storico-culturale della sua epoca e che, allo stesso tempo, proietta Israele verso una nuova comprensione della fede nel suo Dio [ecco perché ho detto: inizio della sapienza] e, aggiungo ancora, verso una visione, forse più intuita che spiegata, nella quale il rapporto dell'uomo con Dio deve essere legato a una dimensione di assoluta gratuità". Mi sembra la conclusione più sapiente che si possa trarre da una lettura obiettiva del Qoelet.
Appendix 6. Subcutaneous drug administration Indications for use of subcutaneous route The use of the subcutaneous route is indicated in those circumstances where the patient cannot take the medication orally or when the symptoms are not suffi ciently controlled by this route. In practice, the situations where the subcutaneous route is considered as a fi rst choice option are: uncontrolled nau